Con la sentenza n. 1608 del 27 gennaio 2014 (dep. 3 dicembre 2013) la Suprema Corte ha confermato una decisione del Tribunale di Bolzano in merito al ricorso ex art. 152 del Codice della Privacy (D. Lgs. 196/2003).
In primo luogo, si rammenta che l’art. 152, nella nuova formulazione introdotta dal D. Lgs. 150/2011, prevede al comma 1-bis il rinvio alla norma speciale prevista per le controversie in materia di di lavoro: pertanto, oltre all’introduzione della causa da attuarsi mediante ricorso (e non atto di citazione), è altresì prevista l’impossibilità di appellare le decisione del magistrato di prima istanza, dovendo necessariamente ricorrere in Cassazione avverso eventuali vizi di motivazione.
Ciò premesso, con la sentenza in discorso (consultabile per intero qui – fonte: IlSole24Ore) la Corte di Cassazione appare prendere nettamente posizione, in tema di “soggetto identificabile”, per una definizione del concetto assai ampia, e rivolta ad impedire eventuali elusioni delle finalità proprie della normativa in materia di riservatezza dei dati personali.
Il caso di specie attiene ad un articolo di giornale nel quale, pur oscurati nomi e cognomi della protagonista della vicenda e del figlio minore, se ne consentiva comunque l’individuazione a mezzo della diffusione di numerosi particolari, anche a causa della ristretta cerchia di persone residenti nella zona interessata.
I numerosi profili di rilievo proposti dalla testata giornalistica con ricorso in Cassazione, invero, sono risultati tutti superati d’un sol colpo dalla seguente considerazione, svolta dalla Corte: “… è del tutto evidente che negare l’applicazione della normativa citata alle ipotesi di persona immediatamente riconoscibile pur in assenza della indicazione delle generalità, equivale a negare concreta efficacia alla normativa stessa e a renderla agevolmente aggirabile“.
Di fatto ed in conclusione, continua la Terza Sezione, tutte le contestazioni mosse alla Sentenza di primo grado si risolvono in un’inammissibile richiesta di riesame delle questioni di merito, oltretutto chiedendo alla Suprema Corte di contemperare – come già fatto dal giudice di prime cure – gli oneri derivanti dal rispetto della privacy con quanto stabilito dal codice deontologico approvato dall’Ordine dei Giornalisti (nel 1998, peraltro).
E ciò, oltre che inammissibile in sede di legittimità, è stato considerato comunque non sufficiente per contestare la logicità della ragionamento posto alla base del provvedimento impugnato: in buona sostanza la Corte di Cassazione ha inteso consolidare, con la pronuncia in discorso, il principio secondo cui “l’individuabilità della persona offesa o di cui sono stati resi pubblici dati sensibili non ne postula l’esplicita indicazione del nominativo, essendo sufficiente che essa possa venire individuata anche per esclusione in via deduttiva, tra una categoria di persone“.